L’anziano prelato parroco fino al 2015 è stato protagonista della storia del suo paese. Ha custodito a lungo il tesoro di San Pataleone: 27 chili d’oro donati dai fedeli
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Nato il 19 luglio 1940 a Santa Domenica, frazione di Ricadi affacciata sul Tirreno, Giuseppe Saragò era il sesto di nove figli di una famiglia di agricoltori.
Scelse giovanissimo la strada del sacerdozio. Dopo i primi anni di studi al Seminario di Reggio Calabria, fu tra i selezionati per la formazione a Napoli, presso i Gesuiti, dove conseguì la laurea in Teologia alla Pontificia Facoltà “San Luigi” di Posillipo. Più tardi ottenne anche la laurea in Lettere moderne all’Università di Messina.
Ordinato sacerdote il 6 luglio del 1965, mentre era ancora a Napoli, gli fu chiesto di sostituire per un breve periodo l’allora parroco di Limbadi, don Domenico Musumeci. Quella che doveva essere un’esperienza passeggera si trasformò invece nella missione della sua vita.

Poeta, scrittore, innovatore, don Peppino ha vissuto a Limbadi un ministero segnato dalla dedizione assoluta. Alla guida spirituale della comunità ha affiancato per anni l’insegnamento, portando la sua passione in aula come docente di religione al Ginnasio di Nicotera e di lettere alla scuola media di Limbadi.
Delle tappe più importanti del suo presbiterato ha lasciato preziosa testimonianza nei suoi scritti: una vera e propria attività storiografica portata avanti con profuso impegno e costanza. Segno di quanto avesse a cuore la memoria collettiva e le sorti della comunità che, inaspettatamente, diventò la sua casa.
Tra le numerose opere: Sud terra mia, I Pupi, La Crisalide, Sisifo, Il sogno avverato, La bella castellana ed Ermolao, I quadri del Santo e la reliquia del suo sangue, Il Grido della Certosa, SS. Cosma e Damiano.
Trasformò Limbadi in un laboratorio di vita ecclesiale, mise al servizio della comunità la forza della sua parola e dei suoi gesti.
Nell’anno del sessantesimo anniversario dell’ordinazione sacerdotale, la sua storia ci viene restituita dalla sua voce, dai suoi libri, dalla sorella e dalla nipote Rosaria, che oggi si prendono cura di lui nella residenza di famiglia a Caroni, frazione di Limbadi.
La vocazione si manifestò sin dall’infanzia: la sorella lo ricorda affettuosamente mentre celebrava messa nel pollaio e giocava simulando la comunione con il cibo prelevato dalla credenza.
A soli 25 anni, fu inviato a Limbadi. Per la famiglia fu un colpo. Abituati all’ambiente aperto e distinto di Tropea, dove a scuola si andava in camicia e cravatta, percepivano Limbadi come un luogo remoto, senza strade né casa parrocchiale. Tanto fu lo sconforto della madre che, contro ogni previsione per una donna di quegli anni, decise di seguirlo, lasciando a casa col padre la figlia più piccola.
Ma don Peppino non ebbe mai dubbi. Racconta di aver sognato il santo patrono di Limbadi, San Pantaleone, il quale gli disse: “Questa sarà la tua missione”. Un sogno vissuto quasi come un’apparizione mistica. A San Pantaleone Medico e Martire, don Saragò rimane legato da profonda fede e affetto sincero.
A Limbadi si lasciò guidare dalle sue passioni, la scrittura e il teatro, che insieme al suo carattere forte divennero strumenti fondamentali per compiere la sua opera.
Con don Saragò, la chiesa del paese affrontò il passaggio da realtà rurale a moderna, con più spazio ai giovani e maggiore apertura sociale.
Con lui nacquero i gruppi dell’Azione Cattolica Ragazzi (ACR), dell’Azione Cattolica Adulti, il coro parrocchiale, le prime rievocazioni del martirio di San Pantaleone e la tradizione del presepe comunitario nella chiesa madre.
Le sue omelie erano cariche di intensità comunicativa. Messe e funerali diventavano momenti di raccoglimento sincero e memoria condivisa, con ricordi semplici e incisivi della vita dei defunti.
Sostenitore dei giovani, non perdeva occasione di presentare in chiesa chi aveva concluso gli studi, come motivo di orgoglio per tutta la comunità. La sua missione era all’insegna dell’accoglienza e mai del giudizio.
Abituato alla filosofia gesuita, non si lamentava né si risparmiava, arrivando a guidare una delle ultime processioni con grande sacrificio fisico. Indossata la tunica, ogni sua sofferenza sembrava svanire.
Nel libro “San Pantaleone. Un testimone per ogni tempo” descrive con intensità i due riti più importanti dell’appuntamento più atteso dai fedeli, la processione patronale.
Gli sparacari: «Emblemi di grande umiltà e di spontanea accettazione della sofferenza, per voto, procedono in duplice fila, scalzi, sotto cupolette di colore verde scuro, fatte di piante di asparagi selvatici, pungenti come le spine di un riccio, che ricoprono il capo ed il busto di chi si sottomette alla penosa sofferenza». Per don Saragò si tratta di un’esperienza spirituale: «Ogni chiusura in sé è altamente negativa; ma gli sparacari non sono isolati, perché sotto le verdi cupole di asparagi essi si aprono con la preghiera alla comunità, al Santo, a Dio».
Accanto a questo rito di penitenza, ricorda quello dei bambini denudati, che definisce «il momento più ricco di significati» della processione di venerazione al Santo: un bambino, spogliato di ogni ornamento, viene affiancato alla statua in cammino, offerto simbolicamente al Santo come segno di purezza e affidamento totale. Un gesto semplice ma potentissimo «che suscita viva emozione, fascino allettante ed incantevole».
Era lui, con voce tonante, a ordinare dalla porta della chiesa prima della partenza della processione: “Le sparacare devono stare avanti! E i passeggini dietro!”.
Nel corso della sua missione, don Peppino è stato promotore e testimone diretto di importanti opere di recupero: il restauro e la riapertura della chiesa della Madonna del Carmelo, i lavori di Villa Cafaro, la posa della prima pietra della casa parrocchiale.
Con tenacia si adoperò perché la reliquia del Santo, fino ad allora custodita dalla famiglia Saladino, fosse resa disponibile ai fedeli nella chiesa.
Per anni raccolse e custodì i 27 chili di oro donati a San Pantaleone, finché la Curia decise di prelevarli per motivi di sicurezza: un momento doloroso, perché in quei monili le famiglie riconoscevano i ricordi e il dolore dei propri cari. Figlio spirituale del Beato don Mottola, ha trovato in lui consiglio nei momenti di dubbio. Uno dei ricordi più felici fu quando riuscì a far visitare Limbadi a Monsignor Loris Francesco Capovilla, segretario particolare di Papa Giovanni XXIII, durante una sua permanenza in Calabria.
Per don Peppino ogni occasione era buona per offrire un insegnamento e un segnale di speranza alla comunità. Ancora oggi, rimane vivido il ricordo del suo timbro di voce in chi lo ha ascoltato, mentre esclamava: “Viva San Pantaleone!”